Il racconto di un’oss di un Ps brianzolo. “Io amo profondamente il pronto soccorso, perché non è, né sarà mai, routine. È un luogo anche bello e prezioso. Non si parla mai dei risultati positivi, di tutte le vite salvate tempestivamente”
24 sett. 2024 – Il camper della Fp Cgil nazionale, con la sua campagna “Sanitari, curiamoci di noi”, anche nella tappa brianzola ha incrociato tante lavoratrici e lavoratori della sanità.
Tra loro c’è Chiara, 49 anni, operatrice socio sanitaria, con 18 anni di ospedali sulle spalle, soprattutto del milanese. È da un anno che si è avvicinata “finalmente” a casa, nella provincia di Monza e Brianza, appunto.
Il lavoro di Chiara ha una peculiarità: è svolto in pronto soccorso.
“I pronto soccorso sono luoghi abbastanza critici, l’emotività può rendere i pazienti più suscettibili. L’ansia è prevalente, perché uno non sa che cosa ha, che cosa dovrebbe fare, quanto tempo deve rimanere, che è oltretutto la domanda più gettonata – commenta la lavoratrice -. Sono domande a cui spesso neanche il medico riesce a rispondere, dipende dalla diagnostica, e così l’ansia cresce, non solo per i pazienti ma anche per i parenti che attendono notizie fuori”.
Fai riferimento anche alle aggressioni?
“Quando lavoravo in un grosso ospedale milanese, hub infettivo sotto il Covid e comunque con una grossa percentuale di pazienti tossicodipendenti e psichiatrici, qualche aggressione c’è stata ma, per fortuna mia, visto quanto accade in altri pronto soccorso, finora non ho assistito a nulla. Il tema ultimamente è alla ribalta. Io registro spesso le aggressioni verbali, dove l’aggressività è dettata dall’incertezza che si vive nel pronto soccorso, che è un posto ansiogeno”.
Formazione in merito?
“Sì, ogni anno ci viene proposto un corso di formazione su come gestire le varie aggressioni, su come cercare di stemperare un’azione che può essere un po’ una bomba a orologeria. Certo – aggiunge -, la formazione potrebbe essere anche un po’ più tecnica, insegnarci quelle che potrebbero essere effettivamente le pratiche per poter smorzare le varie scintille in pronto soccorso, luogo che le crea. È complicato ma si deve fare il più possibile per lavorare tutti in sicurezza”.
Che cosa significa per te fare questo lavoro?
“La parte relazionale è importante, però io amo molto la parte tecnica del mio lavoro, cioè imparare sempre ogni giorno qualcosa di nuovo, qualcosa che va oltre a quanto appreso nel corso sociosanitario, chiaramente più limitato. Mi piace avere a che fare con situazioni nuove, in cui applicare le mie conoscenze e la mia esperienza ma anche affrontare casi inediti, con cui misurarmi – sottolinea Chiara -. Io amo profondamente il pronto soccorso, proprio per queste criticità e proprio perché non è, né sarà mai, routine. Ho però notato – prosegue – che, per quanto riguarda la nostra figura di operatore sociosanitario, il pubblico è un passo indietro al privato convenzionato, siamo più una figura di margine. In ogni modo, sicuramente dobbiamo avere tanta capacità di problem solving, perché in ogni momento può succedere qualcosa di diverso! – dice, riprendendo entusiasmo -. È vero che le urgenze vengono gestite su protocolli, procedure, però, ogni paziente è a sé, ogni situazione è a sé, e di conseguenza bisogna essere un po’ versatili”.
Hai un’emergenza risolta positivamente da raccontare?
“Potrei citarti un personaggio conosciuto, però è meglio rispettare la sua privacy. Non è stato dove lavoro ora ma in un pronto soccorso milanese. Quest’uomo è andato in arresto cardiaco in triage ed è stato brillantemente recuperato. Questo caso è un esempio di tutto quello che c’è comunque di bello e prezioso nel pronto soccorso. Va rimarcato il fatto che le gravi problematiche di salute, le vere emergenze, molto spesso vengono risolte in modo positivo, a dispetto della cronaca che invece ci mette alla ribalta come persone che non fanno il loro lavoro a dovere o mette in risalto solo i problemi. Non si parla mai dei risultati positivi, di tutte le vite salvate tempestivamente perché noi siamo lì!”.
Come siete messi a personale?
“Siccome, in passato, ho lavorato in condizioni molto peggiori, dove per turno c’erano solo un infermiere e un oss, non mi lamento ora della situazione nel mio pronto soccorso”.
Secondo te, com’è la sanità che funziona?
“Va contestualizzata, bisogna vedere il periodo storico. Oggi c’è proprio bisogno di supportare di più la medicina territoriale: il paziente non sa dove rivolgersi e di conseguenza viene in pronto soccorso, magari anche per cose che sono improprie. La notte poi è sempre critica, scattano tutte le ansie del mondo. Quindi, il territorio va potenziato, va potenziata la capacità dei medici di base di gestire quelle che sono le prime richieste, ad esempio con un point of care, semplici esami ematici, quelli di laboratorio o al volo, tipo gli stick. Anche le case di comunità vanno rafforzate, perchè potrebbero essere di grande aiuto per quello che oggi è il problema: la popolazione sta invecchiando. Bisogna anche contestualizzare in questo senso – continua -, bisogna dare risposta a tutti quelli che spesso non sono bisogni sanitari ma, più che altro, sociali. Ci sono situazioni che i parenti, i figli non riescono a gestire e quindi l’unica soluzione che trovano è portare al pronto soccorso l’anziano, che resta lì per giorni. Il problema è che la tipologia di paziente sta cambiando. Le malattie, l’ansia, la depressione devono essere gestite. I casi sono tanti e diversi”.
Tipo?
“Non c’è più solo il mal di pancia, ma c’è il mal di pancia di una paziente che ha un caso sociale e viene in pronto soccorso perché magari non vuole stare da sola, magari ha bisogno di parlare, magari si sente più sicura. Occorre dare una risposta a questo e quindi, ribadisco, serve potenziare la medicina sul territorio”.