L’intervento di Nicoletta Vinci, assistente sociale del Ssn, all’assemblea Fp Cgil Lombardia del 18 ottobre
22 ott. 2024 – Nicoletta Vinci lavora come assistente sociale alla Asst Valtellina e Alto Lario dal dicembre 1993.
Nello specifico ha “sempre lavorato presso il Dipartimento delle Dipendenze, il Sert, che adesso si chiama Serd. Abbiamo cambiato nome per tanti anni, ma la storia è sempre quella”, ha raccontato all’assemblea degli assistenti sociali della Fp Cgil Lombardia il 18 ottobre.
All’epoca, negli anni ’90, e per circa due anni, si è occupata anche di tutela dei minori, visto che “i comuni avevano delegato questa funzione”. Ma Vinci si è anche occupata di documentazione, di gestione dei sistemi di qualità, ha tenuto docenze ai corsi Asa ed è commissaria e presidente nelle commissioni d’esame Oss e Asa. Segue la commissione invalidi, ha fatto la supervisione di tirocini, il suo curriculum, insomma è ricco e dedicato a una “professione che io ho abbracciato e amato fin da subito. Già in fase formativa avevo capito che quella era la mia strada. Ci ho dedicato molto della mia vita e, secondo me, nel mio servizio il riconoscimento del mio ruolo è una cosa un po’ particolare perché io me lo sono preso con tutte le mie forze e sono fermamente convinta che, al di là di tutte le battaglie che possiamo fare, e le dobbiamo fare, la prima responsabilità è la nostra, di credere nel nostro lavoro e nella nostra professione e di credere che gli altri ce lo devono riconoscere”, dice, evidenziando anche il suo percorso con la Cgil iniziato circa tre anni fa.
“Io sono davvero grata alla Cgil, che un sindacato grande come la Cgil possa portare avanti anche quelli che sono i nostri diritti, i nostri riconoscimenti. Perché ancora oggi la nostra professione, anche in sanità, anche da chi ci dirige, anche da chi lavora con noi, è poco riconosciuta, è confusa, è sconosciuta e spesso anche fraintesa”, sostiene la delegata della Fp Cgil Sondrio.
Cosa intende?
Lo spiega con un esempio. “Quando ci sono gli incarichi di posizione organizzativa, funzione professionale, coordinamento, gli infermieri sostengono che l’assistente sociale non ha il coordinamento oppure che devono essere individuate all’interno della Asst alcune figure chiamate esperti. Quando si tratta di parlare dell’assistente sociale nessuno sa neanche che esiste in Asst o cos’è l’assistente sociale esperto. Loro non sanno – specifica Vinci, includendo in questo non sapere anche i dirigenti – che già il nostro Albo definisce la sezione A e la sezione B, quindi che c’è un assistente sociale di primo livello e c’è un assistente sociale esperto e specialista”.
Se è vero che, in sanità, gli assistenti sociali rappresentano una piccola quota, lo è altrettanto che il loro mestiere cresce via via d’intensità.
“In tutti questi anni ho visto i cambiamenti e l’evoluzione del sistema sanitario nazionale e regionale. Ho visto l’ente pubblico diventare sempre più debole e sempre più gestito attraverso l’esternalizzazione e l’appalto di alcuni servizi. Il nostro lavoro, di contro, è diventato sempre più complesso e faticoso. Tra gli operatori spesso c’è demotivazione, senso di impotenza, a fronte di scarse risorse, scarso personale. In un contesto dove, invece, viene chiesto di rispondere puntualmente ai cittadini e dove le problematiche dei cittadini diventano sempre più impegnative”, commenta Vinci.
E quali sono i compiti dell’assistente sociale?
“Ci viene chiesto di attivare sempre più interventi volti all’integrazione sociosanitaria. Ma l’integrazione sociosanitaria non può prescindere dalla condivisione con altre figure professionali sociosanitarie, dal lavoro in equipe, dalla collaborazione e cooperazione. Sono concetti storici questi, io li sento dal 1989, quando mi sono iscritta all’università, ma ancora oggi non sempre realizzati, non sempre pensati con l’adeguato riconoscimento paritario delle diverse figure professionali. Sottolineare la rilevanza dell’integrazione sociosanitaria significa riconoscere a pieno titolo il servizio sociale, se non riconosciamo il servizio sociale abbiamo finito di parlare di integrazione sociosanitaria – rileva la delegata -. Il servizio sociale si realizza attraverso gli interventi professionali dell’assistenza sociale – ribadisce – e concorre a generare salute”.
Un concetto, questo, ad ampio spettro, come l’Organizzazione Mondiale della Sanità insegna: “salute è un benessere inteso in senso globale: benessere sociale, sanitario, psicologico e relazionale”.
Cosa bisogna fare per riconoscere il ruolo dell’assistente sociale?
“Serve uscire dai vecchi schemi. L’assistente sociale concorre a pieno titolo, e attraverso l’esercizio di una professione dotata di autonomia tecnico-decisionale, a elevare i livelli di salute dei cittadini. Il benessere dei cittadini e la salute sono responsabilità fondanti il servizio pubblico. Sarebbe auspicabile, al fine di poter realizzare servizi integrati, efficaci ed efficienti, rispondenti ai criteri di qualità, l’istituzione del servizio sociale professionale, sia in sanità sia negli enti locali, affinché si possa partecipare, a pieno titolo, anche ai livelli programmatori e gestionali, componenti molto presenti nel nostro mandato istituzionale. Attualmente – prosegue Vinci -, nella maggior parte delle Asst, gli assistenti sociali afferiscono al Dapsa (che era il Sitra), Dipartimento Attività e Professioni Sociosanitarie che, a livello intermedio, dipende dagli uffici infermieristici. Spesso i coordinatori sono infermieri e magari ai concorsi per gli assistenti sociali il Presidente è un infermiere, che interroga l’assistente sociale”, osserva.
La sua istanza è netta e ferma: “Riconoscere la professione anche attraverso possibilità di aperture a livelli diversi da quelli attuali, dove noi ci troviamo sempre in trincea senza poter mettere a disposizione le competenze maturate nel corso degli anni. Questo fa venir meno l’integrazione, sicuramente necessaria per far fronte alla complessità dei territori, perché programmare e pensare a un’offerta di risposta ai bisogni per il benessere dei cittadini non può essere un’esclusività del personale sanitario. Non può. Credo anche – dice in chiusura – che ognuno di noi debba amare la propria professione, debba essere parte attiva per far sì che il proprio ruolo venga valorizzato e riconosciuto, mentre molto spesso già noi ci poniamo in condizioni di inferiorità rispetto alle altre professioni storicamente riconosciute. Difendere la professione è anche un dovere deontologico”.