27 Sep 2024
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Curiamoci di noi / Le sfide di Eva

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Storia di un’infermiera passata, in pieno covid, dal lavoro ospedaliero a quello in un servizio territoriale della Brianza: “La mia esperienza è sicuramente appassionante”, racconta

24 sett. 2024 – Il camper della Fp Cgil, con la campagna nazionale “Sanitari, curiamoci di noi” è approdato in Lombardia. Tra le tappe odierne, la terra brianzola.

A parlarci del suo lavoro, per l’occasione, Eva, nome di fantasia ma professione vera, quella di infermiera in una centrale operativa territoriale (Cot).

Eva ha 38 anni, di cui 14 passati nella sanità pubblica. A fine 2021 decide di lasciare l’ospedale per il territorio. “Nel periodo della pandemia ho iniziato a guardare un pochino oltre, quindi a far entrare dentro di me il pensiero della casa come luogo di cura. Fino a quel momento, vivendo la realtà ospedaliera non mi ero mai affacciata sull’assistenza territoriale”.

Il covid ti ha spaventata?

“Non è stata paura ma una presa di coscienza. A un certo punto mi sono detta che, forse, sul territorio avrei potuto dare qualcosa in più ai cittadini. Dare solo l’assistenza infermieristica in ospedale non era per me più sufficiente. Quindi avevo proprio bisogno di questa spinta – risponde -. Stare sul territorio significa ampliare un po’ la sfera dei bisogni della persona, bisogni che molto spesso in ospedale noi non vediamo, essendo un luogo per acuti, per pazienti in condizioni critiche. Quindi, c’è tutto un aspetto che riguarda la prevenzione, il prendere in carico una persona nel tempo e anche la sua famiglia: bisogna avere anche una visione olistica di un nucleo familiare, perché l’assistito non è un’unica persona, ma attorno a lui girano spesso delle figure, dei caregiver, che spesso vanno in sovraccarico. È proprio da queste difficoltà – aggiunge – che poi nascono riflessioni e nuove soluzioni che forse sono anche meglio di prima. Riuscire a sostenere le famiglie all’interno della propria realtà, del proprio domicilio, del proprio equilibrio per me è veramente fondamentale. È proprio lì l’interesse che a me nasce, prendere in carico tutta la famiglia e garantire l’autodeterminazione di questa famiglia”.

Dal tuo lavoro trai grande motivazione.

“La mia esperienza è sicuramente appassionante. Ci viene richiesto un grande impegno, un grande sforzo, dopo la pandemia sono aumentate le problematiche sociali, come quelle in ambito lavorativo, con la carenza di personale. Questo ha richiesto uno sforzo maggiore per noi, però per me è stata anche una spinta sfidante. Ad esempio – racconta Eva -, io do maggior peso alle situazioni di particolare fragilità, dove a essere in difficoltà spesso non è solo l’utente preso in carico ma tutto il nucleo familiare. Quindi, riuscire a collaborare con tutti i professionisti del territorio e a creare una rete solida a sostegno dell’utente ma anche il suo caregiver è per me un motivo di grande soddisfazione. Riuscire a far parte di questo sistema di supporto concreto alle famiglie è il maggior compiacimento. E avere poi il riscontro da parte di queste stesse ti dice che stiamo andando sulla strada giusta”.

Cosa significa lavorare in una Cot?

“La Cot è, in sostanza, un modello organizzativo per la presa in carico della persona e di raccordo fra i vari servizi e i professionisti coinvolti nei diversi setting assistenziali. Il nostro è quasi un ponte di giunzione per rispondere a delle necessità di prossimità assistenziale e per ridurre la distanza tra i cittadini che necessitano di percorsi di cura e le strutture sanitarie – spiega la lavoratrice -. Noi assicuriamo continuità, accessibilità, integrazione dell’assistenza sanitaria e sociosanitaria. Il nostro ruolo è significativo perché dobbiamo assicurare la transizione degli utenti nei passaggi tra un setting di cura e l’altro o tra livelli di intensità diversa. È così che noi infermieri della Cot sviluppiamo un’estrema conoscenza del territorio e di tutti i suoi servizi, oltre ad acquisire competenze tecniche specifiche. Siamo in continua relazione con tutta la rete dei servizi e dei professionisti, dai medici di medicina generale agli assistenti sociali, agli operatori delle case di comunità e ospedalieri. Sicuramente la Cot è tutta in una fase di evoluzione – considera -, siamo in un periodo storico di estremo cambiamento. In questi anni c’è stata una flessione demografica e un aumento dell’aspettativa di vita”.

Per te qual è la criticità più grande?

“A fronte di quanto ho appena detto, la criticità più grande che rilevo è che tutto ciò porta con sé un incremento della complessità dei bisogni socio-assistenziali dei nostri cittadini, alla quale poi noi dobbiamo dare delle risposte concrete ed è qui che poi sorge il nostro impegno nello svilupparle”.

Com’è la sanità che ti immagini?

“Fondamentalmente rispecchia gli obiettivi in salute del Pnrr (il piano nazionale di ripresa e resilienza – ndr), quindi sicuramente potenziare l’assistenza domiciliare. Il mio motto è: la casa è il primo luogo di cura. Questo deve essere potenziato anche attraverso l’uso della tecnologia. Adesso si parla, appunto, di telemedicina che sicuramente può essere uno strumento di supporto. Ma vanno sicuramente anche potenziate e ampliate alcune tipologie di strutture sanitarie sul nostro territorio per aumentarne la disponibilità, perché la richiesta, ripeto, anche con questi bisogni sempre più complessi legati alla nostra popolazione che invecchia, aumenta sempre di più”.