Ieri l’assemblea regionale organizzata da Fp Cgil Lombardia in presenza al Tribunale di Milano e da remoto da tutte le sedi del Dipartimento dell’organizzazione giudiziaria, con la coordinatrice nazionale Felicia Russo.
3 dic. 2025 – Il Ministero della Giustizia è arrivato a un punto critico che non riguarda più solo chi ci lavora: incide sulla tenuta democratica del Paese. L’arretramento dura da anni e ha ormai il profilo di una scelta politica consapevole.
La fotografia più nitida l’ha scattata Felicia Russo, coordinatrice nazionale Fp Cgil Giustizia, che ha mostrato ciò che spesso la politica finge di non vedere: il terzo pilastro dello Stato lasciato sprofondare.
“Siamo gli unici nel comparto delle Funzioni centrali, dopo tre contratti nazionali, a non averne visto applicare nessuno dei tre”, ha ricordato. Non parliamo solo del contratto 2019/2021, ma anche dei due precedenti. È un’anomalia nazionale che pesa sulle retribuzioni, sulle pensioni, sul Tfr, sulla dignità professionale. “L’età media è 58 anni”, ha aggiunto, indicando che un’amministrazione così anziana, con quasi 15.000 carenze di organico (e nel biennio 2025-2026 andranno in pensione altre 4000 persone), non può reggere e non può garantire diritti ai cittadini.
Alla riunione è intervenuto anche il Presidente del Tribunale di Milano, Fabio Roia, per esprimere vicinanza e insieme gratitudine alle lavoratrici e ai lavoratori. Ha parlato della “perdita di competitività del settore giustizia” e dell’urgenza di stabilizzare l’Ufficio per il Processo (Upp), segnalando una “continua fuga verso altri comparti della pubblica amministrazione” come Entrate, Monopoli e Dogane.
Ha definito la “politica del Ministero insoddisfacente”, ricordando che le criticità del personale toccano anche la magistratura: “i problemi vostri sono problemi anche miei e nostri”. Con amarezza ha constatato che, pur ripetendo “sempre le stesse cose”, non arrivano risposte politiche, tanto da far pensare “che si voglia che la giustizia vada un po’ alla deriva”.
Su questa scia, Russo ha detto che la questione non è solo salariale, ma politica: giustizia, sanità e scuola sono i tre pilastri colpiti da un disegno di arretramento del welfare pubblico. Dentro questa cornice, la mancata applicazione dei contratti serve a creare una “guerra tra poveri”. “Se l’articolo 18 fosse stato applicato, migliaia di lavoratori sarebbero già in terza area”, ha evidenziato.
L’amministrazione non adotta l’ordinamento professionale previsto dal contratto nazionale e poi scarica la responsabilità sui precari dell’Upp, mettendo in conflitto gruppi diversi per occultare la vera causa del blocco: “l’inerzia del Ministero”.
L’Ufficio per il Processo è stato f
inanziato dall’Europa perché “il nostro è il settore organizzativamente più arretrato”. Russo ha chiarito che l’Upp non è un elenco di precari, ma il cuore della riorganizzazione: “È un nuovo modello organizzativo”. Se non si struttura l’Upp, si rischia non solo la paralisi interna ma anche di tradire gli obiettivi del Pnrr, con ricadute sul rapporto con l’Europa. Le stabilizzazioni parziali (e 9000 persone che perderanno il lavoro) rischiano di trasformarsi in un boomerang: dopo quattro anni e valutazioni positive, una parte del personale dovrà rifare una selezione con meno posti, magari dovendo trasferirsi dal Sud al Nord con stipendi da “1800, 1900 euro”. Una scelta che, ha segnalato la sindacalista, somiglia più a una desertificazione programmata che a una riforma.
A questo si aggiunge lo svuotamento della figura del Direttore, destinata “ad esaurimento”: un modo per indebolire competenze strategiche e aumentare la dipendenza da figure apicali di natura fiduciaria, colpendo la capacità tecnica degli uffici.
Mimmo Silipigni, coordinatore Fp Cgil Lombardia, ha raccontato la frustrazione di chi vive gli uffici ogni giorno. “Una situazione veramente ingestibile”. L’aumento dei carichi, le progressioni a costo zero (“Una presa per il naso”). E la sproporzione retributiva: lui, con anni di esperienza in terza area F3, prende “sui 2000” euro. Un ex collega passato alle Dogane da assistente “sui 2000-2100, con tanti benefit”.
È la dimostrazione plastica, ha detto, che i lavoratori della Giustizia sono considerati “figli di un Dio minore”.
Anche per Silipigni questa frattura non è casuale, ma parte di una strategia per portare a “una forma di disaffezione verso questo Ministero e lasciarlo andare a ramengo”. Per ribaltare la rotta, ha invitato a una partecipazione convinta allo sciopero nazionale di venerdì 5 dicembre: “Bisogna ritirare fuori lo spirito che avevamo nel ’92”, sostiene, richiamano la mobilitazione straordinaria di allora, quando il personale della Giustizia scioperò compatto per quindici giorni consecutivi.
La questione della rappresentanza è un altro tema decisivo. Andrea Ferraccio della Fp Cgil Milano ha ricordato che il contratto delle Funzioni Centrali firmato da altre organizzazioni sindacali “ci ha penalizzati a livello normativo ed economico”, mentre un sistema di regole distorte esclude la Cgil dai tavoli nonostante sia il sindacato più votato nel pubblico impiego. Da qui il suo appello a tesserarsi, “per dare corpo e forza alla Cgil”.
Il suo ponte con il 5 dicembre tocca un nodo politico: “Ci conteranno quando deciderete di scioperare o, soprattutto, di non scioperare”.
Russo, Silipigni e Ferraccio hanno raccontato una realtà allarmante: la Giustizia è un pilastro della Repubblica che viene eroso pezzo dopo pezzo. Difenderla significa difendere lo Stato di diritto.
Per questo lo sciopero del 5 dicembre è una scelta doverosa. Non solo una protesta: un atto di responsabilità verso il Paese.
E come ha detto Russo in chiusura: “Se non siamo contenti, è ora che usciamo”.