22 Nov 2024
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Assistenti sociali / L’orgoglio e l’indipendenza di una professione

Dalla relazione di Dino Pusceddu, segretario Fp Cgil Lombardia, all’assemblea regionale del 18 ottobre

22 ott. 2024 – “Per la prima volta la Funzione Pubblica Cgil della Lombardia prova a mettere insieme delegati che operano come assistenti sociali nei tre comparti pubblici e nel terzo settore. Il loro è un lavoro differenziato e che però, per sua natura, si connota come un lavoro di rete. Questa iniziativa è solo il primo appuntamento della categoria per condividere strategie per una piena valorizzazione di questa figura”. Così il segretario regionale Dino Pusceddu nella relazione all’assemblea delle delegate e dei delegati che lavorano nell’assistenza sociale, organizzata dalla categoria il 18 ottobre scorso, e che appunto a riunito quattro comparti: Funzioni Centrali, Funzioni Locali, Sanità Pubblica e Terzo Settore.

Quali sono le particolarità, nei vari contesti, del lavoro dell’assistente sociale che, trasversalmente, vede “uno scarso riconoscimento in tutti i perimetri in cui opera”?

Nelle Funzioni Locali, fa la sua parte “un rapporto sempre complicato con la politica”, dove soprattutto negli enti più piccoli, le ingerenze sono forti, quando poi sono gli assistenti sociali che devono per la funzione che svolgono concretamente carico della valutazione dei bisogni delle persone. Nelle Funzioni Centrali, è il rapporto con l’utenza a rendere il “lavoro complicato”. Pensando, ad esempio, agli istituti penitenziari, “viene riconosciuto poco il lavoro dell’assistenza sociale, visto solamente come un corollario”, spiega Pusceddu, riferendosi ai due comparti che segue per delega.

Perché è necessario fare rete?

Affinché “il riconoscimento di questa professione si concretizzi non solo nella valorizzazione professionale ma anche nella valorizzazione dal punto di vista economico, di ruolo, di indennità, eccetera”. E, soprattutto, vista la “notevole mobilità tra i comparti”. Ad esempio, da un assistente sociale parte da una cooperativa sociale per passare prima a un comune e dopo ancora alla sanità, sperando di stare meglio, “e invece poi ci si rende il conto che man mano che si va avanti in realtà i problemi si moltiplicano”. E proprio la forte mobilità tra i comparti indica alla Fp Cgil lombarda la necessità delle interconnessioni: “Noi non possiamo pensare di rinchiudere all’interno dell’ambito di un contratto e basta il ragionamento rispetto a questa figura professionale. E abbiamo la necessità di mettere insieme i professionisti perché le fragilità oggi in essere nella società non riguardano un solo ambito. Una persona non ha un problema solamente sanitario, di povertà o rispetto all’ingresso in carcere. Ha un problema che riguarda una sfera familiare, umana, che riguarda tutti i servizi dove voi operate come professionisti – dice Pusceddu rivolgendosi alla platea – . Per tutta la Cgil è fondamentale rappresentare voi che gestite il welfare, cioè la vera spina dorsale nel mantenimento della democrazia e di condizioni di vita dignitose”.

Peraltro, i rischi del mestiere dell’assistente sociale sono tanti.

Un primo punto è che le aggressioni alle operatrici e agli operatori dei servizi sociali si sono moltiplicate “col venire meno di alcune misure, per esempio il reddito di cittadinanza”. Misure la cui responsabilità fa capo al governo e di cui, dalle persone destinatarie, è stato chiesto contro agli operatori, spesso lasciati a lavorare “da soli all’interno di piccoli comuni. Molto spesso anche addirittura da soli all’interno dell’ente, perché gli orari di lavoro degli assistenti sociali non sono compatibili con il resto del personale del comune, e ti ritrovi alle sette di sera da solo con il rischio, appunto, di aggressioni. E allora noi dobbiamo fare in modo che questo rischio venga messo al centro – rimarca – Pusceddu. Come è stato fatto per il personale sanitario, con “una norma ad hoc”, bisogna porre l’attenzione anche “sulle altre figure professionali in tutti i comparti”.

Un secondo punto è che “gli effetti delle misure sulla povertà dei governi non vedono mai il coinvolgimento diretto di chi si interfaccia quotidianamente con le fragilità. Vengono fatte misure a spot unicamente se utili a fare un articolo sul giornale. Ma la risposta rispetto ai bisogni della popolazione non viene mai guardata”.

Un terzo punto, come già introdotto in precedenza, è la “relazione complicata” tra assistenti sociali e “amministratori locali o i cosiddetti superiori all’interno delle varie amministrazioni. Difficilmente ai professionisti vengono riconosciuti ruoli o responsabilità che riguardano il coordinamento del personale”.

Raramente all’assistente sociale è data, ad esempio, una posizione organizzativa. Viceversa, chi ha la responsabilità di queste professioniste e professionisti ne conosce poco il mestiere o ha “in mente solo gli obiettivi di bilancio”. E il caso qui riportato è la difficoltà di “un comune ogni volta che arriva un minore non accompagnato, soprattutto se rischia di mandare in default il bilancio”.

Ma qual è l’indirizzo di gestione dei servizi sociali in Lombardia?

“Non c’è un modello chiaro di gestione, non c’è una linea guida anche da parte degli amministratori, neanche da parte dell’ANCI, con la quale bisognerà avviare un’interlocuzione nel merito – considera il segretario regionale Fp Cgil -. I servizi sociali in Lombardia, soprattutto nell’ambito degli enti locali, sono gestiti da singoli comuni, da enti capofila, da aziende speciali, da società di servizi e partenariati pubblico-privato. Ma manca un’unica linea di indirizzo, che per noi deve avere l’obiettivo di portare la regia e la gestione dei servizi in mano al pubblico. Non è possibile che vengano esternalizzati pezzi di gestione di servizio ad attori privati, che hanno interessi unicamente economici. E poi bisogna fare un’analisi seria sui modelli di gestione, al di là delle aspettative dei singoli professionisti e degli enti locali. Bisogna allontanare la politica dalla gestione, relegarla al ruolo di indirizzo. Bisogna fare in modo – aggiunge – che nei piccoli comuni della Lombardia, che sono 1.034 sotto i 5.000 abitanti, ci sia un modello necessariamente consorziato e associato. Fare in modo che la gestione dei servizi sia messa insieme, perché non è pensabile, appunto, di lasciare i professionisti da soli all’interno degli enti”. Non solo: invece che lasciarli in solitudine, va fatto emergere “il livello di orgoglio per la professionalità e l’indipendenza del ruolo dell’assistenza sociale”.

Tra le criticità ci sono gli abusi professionali.

A causa della carenza di assistenti sociali, ci sono casi di relazioni scritte “firmandosi come responsabili di servizi non essendo assistenti sociali, quindi con un chiaro abuso di professione -, constata Pusceddu -. La difesa delle assistenti e degli assistenti sociali non è solo una difesa del singolo professionista ma una difesa dell’universalità e della giustizia nell’erogazione del welfare e voi siete garanzia di imparzialità rispetto alla gestione dei contributi e a quello che arriva alla persona che quel bisogno ce l’ha. Ci sono competenze tecniche, etiche e relazionali, che solo chi ha scelto questa professione può garantire”.

Questa difesa non è corporativa e “Ordine e sindacato hanno due ruoli fondamentali e complementari. Il ruolo di tutela della qualità della professione è fondamentale e solo un lavoro corale può renderlo esigibile. Penso a quanto poco vengano valutati i ruoli di responsabilità o quante volte vengano svolti ruoli amministrativi, che non competono, come la firma di progetti, il bando di gara. Non sono ruoli che stanno in capo all’assistente sociale”.

Cosa significa agire in modo corale?

Vuol dire “denunciare quando il professionista viene costretto a fare un ruolo non suo ma anche agire sul piano delle assunzioni”, per fare assumere di più. E questo possono farlo solo “l’organizzazione sindacale insieme all’Ordine”. Tanto più a fronte del fatto che, ancora oggi, in Lombardia, le assunzioni non coprono il livello minimo previsto dalla legge di 1 assistente sociale ogni 5.000 abitanti.

Coralità d’azione significa anche “guardare alla formazione non solo come un mero esercizio per mantenere i crediti formativi”. Per Pusceddu la formazione va “finanziata direttamente dall’ente, all’interno dei costi previsti contrattualmente, che sono l’1% del monte salario”. E deve essere “utile alla professione, condivisa con la RSU all’interno del piano della formazione, con il coinvolgimento dei professionisti, perché altrimenti si fa una formazione puramente formale”.

E qual è, invece, il ruolo prettamente del sindacato?

“Quello di una valorizzazione economica della professione e del rispetto dei contratti. Di rendere esigibili le indennità”. Ma anche di introdurre “la responsabilità di posizione organizzativa all’interno di singoli servizi. Quante volte le figure professionali si intrecciano all’interno dei posti di lavoro senza che si ponga il tema del dumping contrattuale? – esemplifica il sindacalista -. Penso alle case di comunità dove entrano professionisti delle cooperative, dove molto spesso entrano professionisti degli enti locali, persone pagate in maniera diversa per fare esattamente la stessa professione. Noi come sindacato questa cosa qui non possiamo accettarla, perché a parità di lavoro ci deve essere parità di retribuzione”.

Altri temi sono da un lato, che la responsabilità gestionale degli assistenti sociali sia in carico a questi stessi, perché “voi soli conoscete le vostre esigenze e la necessità di flessibilità nel lavoro che c’è giorno per giorno”, dall’altro lato, la valutazione dei carichi di lavoro, “che si intrecci rispetto allo stress del lavoro correlato che c’è nel Dvr, anche e soprattutto per non incorrere nel rischio di errori: del danno diretto, penale, civile e amministrativo, e del danno fatto all’utenza, danni che possono essere rischiosi anche per l’intero ente. E allora noi dobbiamo fare in modo di rispettare il fabbisogno di personale per evitare di incorrere in questi danni”.

Da qui la riflessione volge alle elezioni Rsu del prossimo anno.

“Tutto questo possiamo farlo solo con voi. Dobbiamo portare al centro le problematiche all’interno delle singole rappresentanze sindacali unitarie, tramite la possibilità di mettere in ogni singola Rsu, negli enti almeno più grossi, un assistente sociale. Dobbiamo eleggere all’interno delle Rsu gli assistenti sociali e tenere in piedi questo coordinamento in modo che ci sia un continuo e costante confronto tra professionisti che vengono da settori diversi. Sono convinto che la tutela del vostro lavoro sia tutela della Costituzione reale, ovvero una tutela che rende esigibili i servizi, i diritti e quindi la parità di accesso ai servizi del pubblico impiego”.